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In questa Italia la cultura è morta per colpa di chi la fa

Riporto qui l’intervista integrale all’attore Pippo DELBONOrealizzata da Valentina Grazzini; spero non me ne vorrà la direzione de L’Unità sul quale è uscita in data odierna, ma la condivido così tanto che non potevo lasciarla ai soli lettori del quotidiano, convinto come sono che sia arrivato il momento di abbandonare le timidezze e di uscire dalle riserve indiane nelle quali, come artisti, ci siamo fatti rinchiudere. Impegnarci a scendere in campo nella società che ci appartiene e alla quale apparteniamo, non come figli di un Dio minore, non come paria.  Cominciamo a costruire l’Europa del dialogo culturale. Ognuno si prenda la propria parte di responsabilità e smettiamola di aspettare da qualcun’altro ciò che compete noi. Finiamola di pretendere che capiscano la cultura personaggi che non sanno neanche cosa voglia dire. A ognuno il suo mestiere e quello dell’arte e della cultura, spetta agli artisti e agli uomini e donne di cultura.


Quello che lo affascina di un viaggio «è non avere mai una certezza»: vengono dopo (forse) le certezze, insieme alle sensazioni, le

emozioni, le scoperte. Pippo Delbono viaggia su due diversi binari che lungi dall’essere paralleli sono intersecantisi e complementari: perché se i viaggi dell’anima sono un terreno a lui naturale (li condivide con il suo pubblico ogni sera, da sempre, ovunque sia),da bravo artista internazionale viaggia anche nella realtà (il successo che ha ottenuto all’estero è più eclatante di quello patrio, ahinoi). Da Sarajevo ad Avignone, dalla Palestina al Cile, Delbono porta con sé la sua famiglia teatrale: il sordomuto Bobò reduce da 45 anni di manicomio, il clochard Nelson, il Down Gianluca e poi gli altri. In un teatro che sa parlare a tutti, impegnato ma educato, militante e colto, in cui la poesia di Pina Bausch si sposa con la potenza dell’Odin di Eugenio Barba.
La Romania è stata la loro ultima tappa in ordine di tempo.
Cosa vi ha portato in Romania?

«Due anni fa ho presentato Urlo al Festival di Sibiu: siccome nello spettacolo c’è una fanfara che cambia ad ogni tappa, anche lì lavorai con artisti locali: questo fu il primo incontro con una terra che subito mi sorprese. Noi tutti grazie anche ai media abbiamo
inconsciamente un’immaginario dei romeni legato alla violenza, oppure allo stereotipo della badante che aiuta i vecchi: improvvisamente ho scoperto un paese caratterizzato da altre cose, un posto poetico, di una dolcezza che attraversa tutti, i direttori di festival, gli intellettuali, il pubblico.
Ognuno di loro ha una raffinata poesia dello sguardo, che automaticamente dimentichiamo al nostro rientro in Italia, dove ricomincia il gorgo dei luoghi comuni.
Dei muratori a cui diamo del tu, delle cameriere con due lauree che lavorano a comando negli alberghi romani. Una seconda volta tornammo a Bucarest, per presentare La menzogna: lo stesso spettacolo che a Roma aveva indignato le signore bene, lì vide un pubblico di omoni piangenti, in piedi, ad applaudire. Poi è uscito un libro su di me, in Romania, con la prefazione del critico naturalizzato francese George Banu, ed è iniziato il viaggio con questa terra che ha portato a presentare, di nuovo a Sibiu, Racconti di giugno».

Il viaggio porterà con sé nuovi frutti?

«Ho in mente di incontrare l’altra Romania: artisti, poeti, musicisti.
Nell’opera che farò a marzo al Bellini di Catania darò spazio alla loro voce. Anzi, forse ci sarà anche un evento intermedio, ancora non so. In questo momento in cui si parla tanto di Unità d’Italia, dei suoi 150 anni, riflettiamo: non ci può essere unità in un Paese dove manca la volontà di crescere guardando verso il fuori. Questo è fanatismo.
Ospitiamo un milione di romeni e di loro non sappiamo niente: la storia, la cultura, la musica, l’arte. Li usiamo e basta. Per parlare di unità ripartirei da qui, dal non chiudersi a riccio. Siamo di fronte ad un popolo che il comunismo vero lo ha visto in faccia, che conosce il dolore, il lato oscuro.
Ma che non è stato rincoglionito dal nostro capitalismo, dove non sei a posto perché hai delle belle scarpe, ma in quanto portatore della tua umanità. Siamo noi che abbiamo bisogno di imparare: ogni badante ha dei segreti che non conosciamo, il rapporto deve essere paritario, non siamo più nella condizione di sentirci “meglio di”. In Italia c’è un gioco di ruoli ferreo, par di vivere nell’apartheid.
Ha un bel dire Berlusconi che si è liberi di farsi da sé… Non è vero: ci son quelli che sono lì e rimarranno chiusi lì».
Oltre alla “dolcezza poetica”, cosa l’ha conquistata della Romania?

«C’è una relazione carmica che ci lega a loro, basta ascoltare la musicalità della lingua: da lontano sembra italiano. E poi il garbo antico delle persone: dai traduttori che invece di fare a gara per lavorare anteponevano la mia soddisfazione, fino al trattamento riservato a Bobò: una volta in un caffè di Modena lo apostrofarono “E questo da dove è uscito?”. In Romania lo passavano a prendere preoccupandosi se aveva qualche desiderio, fame, sete, come una star.
Nei confronti della cultura poi l’attenzione è alta: durante il festival la città di Sibiu è in festa, si addobba con i vestiti dell’estate: il teatro è ovunque, contamina le piazze, ci sono 60mila spettatori al giorno. Questo è il vero teatro, quello rivoluzionario che parte dalla strada e arriva nei grandi teatri. Anche Avignone, se non avesse il teatro di strada sarebbe un festival “in”, in cui si va per essere snob. Tornando a Sibiu, si ha l’impressione di un seme culturale che si sviluppa con gioia e passione,come un’onda che cambia il modo di pensare. Dalle nostre parti è molto diverso».

In Italia c’è meno fervore culturale dunque?

«Non abbiamo agevolato quelle situazioni: abbiamo relegato l’arte nei teatri dove si pagano biglietti, cari. La trasversalità non c’è mai stata. Ora si parla dei tagli alla cultura: terribile! Io condivido al 100% l’indignazione, ma bisognerebbe anche guardarsi tutti quanti in faccia: noi non abbiamo creato il bisogno di cultura. Siamo i responsabili di quello che è arrivato, credo molto nel meccanismo di causa-effetto. Che vergogna! Tutti lo diciamo,ma siamo noi che non abbiamo più sensibilizzato lo sguardo alla cultura, e lei ci è scappata sotto ai piedi. Questo Paese è morto culturalmente anche riguardo a chi la cultura la fa, la gestisce. Se siamo artisti dovremmo essere in qualche modo preoccupati di quello che stiamo facendo. Non si può far marchette tutta la vita e poi contestare i tagli alla cultura! La domandaè: stiamo facendo cultura o business culturale? Un tempo ogni direttore di teatro o di festival cercava la sua piccola rivoluzione, ora è messo lì perché è amico di unpolitico o perché vuol promuovere il suo, di spettacolino: così non ha più senso, può andare via domani. Se continuiamo a dare grandi spazi alla trasmissione della De Filippi, non possiamo il giorno dopo stupirci se tolgono i soldi alla cultura: è normale, noi stessi abbiamo alimentato il sistema.

È la poesia dell’anima che dobbiamo raffinare».


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