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Fotografia e Committenza Pubblica

Esiste una “fotografia pubblica” proprio come esiste una scuola pubblica, una sanità pubblica eccetera. Ed esiste da quando esiste la fotografia, o quasi. Ma lo Stato fotografo è uno stato distratto e sprecone, che spende e non usa, che commissiona e non sfrutta. O meglio: sfrutta per altri fini da quelli dichiarati, e poi butta nel cestino, o nell’archivio, che è quasi lo stesso.
Vi consiglio la lettura attenta di questo volumeFotografia e committenza pubblica, confezionato da Roberta Valtorta, direttrice del Museo della fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo (istituzione pubblica) con l’aiuto di diciotto curatori o studiosi di altrettante esperienze di fotografia “parastatale”: da quella di Roger Fenton, mandato in Crimea in missione per conto della regina Vittoria fino ai progetti di rilevazione paesistica di governi, governatori e sindaci, passando per la madre di tutte le committenze pubbliche, la storica e forse un po’ troppo enfatizzata Farm Security Administration (1937) dell’era rooseveltiana Usa.
Ve lo consiglio perché, diversamente da quanto mi aspettavo, è tutt’altro che un volume autocelebrativo e compiaciuto. Dalla storia istruttiva, narrata spesso dai protagonisti, di queste decine di campagne di documentazione fotografica commissionate da governi diversi per storia e geografia emerge chiaro e tondo che quando lo Stato mette l’occhio all’obiettivo, non è per vedere, non è per conoscere, ma è per  far vedere, per far conoscere solo se stesso. E questo a dispetto della qualità e dell’impegno di chi ha lavorato a quei progetti.
Sfogliate, leggete. Composto e diplomatico, il lamento è a volte esplicito: “Il progetto e la raccolta sembrano oggi dimenticati” (Annette Rosengren del progetto svedese Ekodok), “Le opere prodotte non sono mai state esposte all’interno del progetto” (Frits Giertsberg del progetto olandese Vinex), “Difficoltà di utilizzo” (Jean-Françoise Seguin del francese Observatoire national du paysage); è comunque sempre implicito nel fatto che nessuno dei racconti ci riferisce di un qualsiasi utilizzo reale, ai fini di decisioni amministrative e urbanistiche vere e proprie, del materiale fotografico prodotto. Non c’è alcuna prova che le fotografie di queste “rilevazioni” spesso imponenti siano mai servite a un decisore pubblico (un ministro, un sindaco, un assessore, anche solo un architetto comunale) per costruire o cambiare scelte urbanistiche o territoriali, che maturano in altre sedi e sulla base di altri materiali. Del resto il vizio è antico: la Mission héliographique, prima esperienza pubblica di censimento del patrimonio storico ai fini di tutela, avviata già nel 1851, a mezzo di calotipi, sotto la direzione di Prosper Meriméee, finì chiusa per oltre un secolo nei cassetti ministeriali, mai pubblicata e di fatto mai esposta nella sua forma originaria, mentre le chiese romaniche e gotiche già rovinate dalla Rivoluzione continuavano placidamente a ricoprirsi di edera.
Perché dunque i governi pagano i fotografi per campagne di rilevazioni che poi non utilizzano? Perché questo spreco? Perché non lo è del tutto, dal loro punto di vista. A loro quelle immagini non servono realmente, al di là di quel che pretendono,  come strumenti da utilizzare nel processo decisionale, ma come strumenti di comunicazione delle decisioni già prese. Non sono materiale di studio ma di propaganda. Perfino le bellissime e oggi preziosissime immagini dei rilevamenti di Paolo Monti nei centri storici di Bologna e di mezza Emilia non servirono affatto all’assessore Cervellati o al Consiglio comunale per prendere decisioni sulla tutela dell’urbanistica storica (che pure fu tutelata), ma piuttosto servirono, nelle mostre che se ne ricavarono, a creare un consenso popolare e culturale attorno a quelle coraggiose operazioni.
Quel che c’è di veramente pubblico nella fotografia pubblica sono dunque solo le public relations. Roy Stryker, gran capo dell’impresa Fsa, era di fatto il capo ufficio stampa visuale del rooseveltismo. E le fotografie tranquillizzanti di Roger Fenton dalla guerra di Crimea,  esposte in mostre itineranti, servirono per contrastare le notizie allarmanti pubblicate dal Times, non certo a prendere decisioni sulla conduzione strategica delle operazioni. E la documentazione di Marville sulle demolizioni haussmaniane di Parigi non erano il salvataggio della vieux ville, ma proprio il contrario, autorizzavano la prefettura a distruggere nella realtà i vicoli pittoreschi che venivano “salvati” sulle lastre.
Se e quando questo compito è stato assolto, e anche se non è stato assolto, le fotografie vengono chiuse nei cassetti e dimenticate. Oppure lasciate al circuito tutto sommato marginale e innocuo (dal punto di vista dei committenti) dei musei. Dove la loro assimilazione all’arte ne sterilizza il residuo potenziale critico, che pure molte di loro possedevano. Ad esempio, le fotografie scattate in una decina d’anni da eccellenti professionisti internazionali per conto dell’archivio Linea di confine di Rubiera alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Milano-Bologna, ad esempio, se guardate nel loro insieme producono la cronaca impressionante della devastazione atopica e entropica di un paesaggio rurale, quello della bassa padana,  già pesantemente compromesso; dunque non proprio un’impressione coincidente con le finalità committenti (tra cui la stessa Tav), ma poco importa, perché quelle immagini, oltre a non essere mai servite a nessun progettista per attenuare l’impatto visivo dell’opera, non hanno neppure circolato abbastanza per suiscitare un dibattito critico sull’argomento.
In questo curioso gioco di propaganda e sperpero, mi chiedo come si sentano i fotografi. Che sono professionisti e dunque mettono  onestamente e spesso intelligentemente la propria competenza al servizio di un incarico professionale, che spesso rappresenta una delle poche occasioni di lavoro sicuramente remunerato. Mi chiedo come reagiscano a questo seppellimento di fatto del proprio spesso accurato, appassionante lavoro. Mi chiedo come intepretino la “libertà condizionata” che è lasciata loro dai committenti (sopesso rivestita da grandi garanzie di libertà creativa assoluta: siete artisti, ci fidiamo dei vostri occhi!), quando è ovvio per tutti, come onestamente ammettono François Hers e Bernard Latarjet già direttori della celebre Datar, che “il professionista, a prescindere dal suo talento, non definisce gli obiettivi [...], il suo lavoro è destinato a presentare opinioni che non sono le sue”.
Mi chiedo se e come sia possibile, per quei professionisti, rivendicare e recuperare almeno a posteriori l’uso del proprio lavoro, ripescandolo dalle cantine in cui è finito dopo (non) essere stato usato, e riscoprirne e ridefinirne le motivazioni e i contenuti, anche retrospettivamente, oltre e perfino contro la convenienza e i desideri del committente pubblico di allora. E non sto pensando alle mostre belle ed educate nelle gallerie e nei musei. Sto parlando di un uso civile, sociale, perfino militante di quelle immagini, che renda loro il senso critico che avevano (quelle almeno che lo avevano).
L’alternativa è rassegnarsi a lasciare che siano i posteri a recuperare quel significato. “Un messaggio in bottiglia per il futuro”, dice ancora Gierstberg, che ho conosciuto e stimo come persona molto consapevole di questo poco incoraggiante contesto che ho cercato di descrivere. In fondo, per rivalutare e recuperare la Mission héliographique passò un secolo. (da la rubrica Fotocrazia di Michele Smargiassi)

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