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Mario Vargas Llosa: "Trionfano l'immagine e l'intrattenimento"

Mario Vargas Llosa, scrittore, giornalista e politico peruviano,
vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 2010
Gli anni sono stati leggeri con lui: ha il volto senza una stropicciatura, proprio come il suo abito grigio di ottimo taglio, e il sorriso del cosmopolita che ha vissuto il mondo senza dissiparsi e lo sa guardare con cauto ottimismo pur avvertendone gli scricchiolii. Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la Letteratura nel 2010, è un intellettuale che alterna il microscopio al telescopio: nelle sue opere indaga gli aspetti più reconditi dell’animo umano e, nello stesso tempo, sa leggere l’ordine del pianeta facendo della realtà della storia il punto di partenza del proprio lavoro. Come accade nel suo ultimo libro, Il sogno del celta, nel quale racconta la vita leggendaria d’un irlandese, Roger Casement, che, seguendo la scia di sangue lasciata in Africa e nell’America del Sud dal colonialismo tra Otto e Novecento, dedica l’esistenza alla lotta senza quartiere contro questa piaga sino a salire, martire di un’idea, sul patibolo.
Se si sforza di leggere, oggi, l’ordine del pianeta, che cosa vede attraverso le sue lenti di intellettuale che, come dice lei, «non ha paura di sporcarsi le mani con la vita»?
«Scorgo, soprattutto, una preoccupante deriva culturale. Il nostro tempo sembra correre cantando verso la frivolezza e la banalizzazione. La cultura ha perso la sua nobiltà, sta diventando intrattenimento. E curiosamente, ma neppure troppo, ciò avviene non nel Terzo Mondo, ma nel Primo. È un’analisi alla quale mi sto dedicando e che sarà il focus d’un mio prossimo saggio».
Forse non a caso l’aggettivo «divertente» è tra i più usati nel nostro linguaggio e sembra aver soppiantato il termine «bello»: è divertente una mostra, un’opera teatrale, un libro...
«Vede, la cultura è anche divertimento, ma se è solo divertimento non è più cultura. Stiamo assistendo alla vittoria dell’immagine, all’imposizione di forme d’intrattenimento che devono essere forzatamente facili e accessibili alla maggioranza delle persone. Questa smania di semplificazione ha fatto sì che lo stesso termine “cultura” perdesse il suo significato originario. E intravedo il pericolo che non solo disimpariamo a discernere, appunto, tra categorie come bello e brutto, ma addirittura tra buono e cattivo. Così l’idea di una cultura alla portata di tutti ha condotto al collasso i valori con i quali si giudicava la cultura stessa».
Qualcuno potrebbe vedere in questo sfogo una difesa elitaria e obiettare che l’ampliamento della base culturale ha molto che vedere con la democrazia.
«La democrazia consiste nel diffondere e rendere accessibili a tutti i prodotti culturali senza snaturarli. Devono parlare i fatti, non le statistiche dei musei. È possibile che un Damien Hirst spacci per arte uno squalo di quattro metri messo in una vasca di formaldeide? Pagliacciate. Quando tutto è cultura, niente è cultura».
Torniamo alla storia. Roger Casement, il protagonista del romanzo, dimostra con la sua lotta al colonialismo quanto la civiltà che arrivava dall’Europa con l’ipocrita impegno di «salvare» i senza diritto, soprattutto africani, fosse in realtà solo oppressione e sfruttamento. Ora nel Maghreb, e non solo, s’è levato un vento di libertà che squarcia un angolo di pianeta in cui sfruttamento e oppressione non hanno mai avuto interruzione.
«Quel che accade in quei Paesi è fantastico: per la prima volta un movimento non religioso si ribella a satrapie medievali. Chiede libertà, vuole lavoro. Dobbiamo esserne contenti e dare la nostra solidarietà a questa gente stanca d’essere vessata, proprio come facevano i produttori di caucciù con i congolesi di cui parlo nel libro».
A dire il vero in Europa - e in Italia, in particolare, terra d’approdo di tanti uomini e donne sospinti dalla speranza d’una vita meno grama - c’è chi osserva: «Una volta eravamo noi a invadere l’Africa, adesso è l’Africa a colonizzarci condannando alla disoccupazione i nostri figli e “contaminandoci” con culture estranee».
«Pregiudizi assurdi, il risveglio di vecchi demoni che credevamo sopiti. Gli immigrati riempiono i vuoti del mondo dell’occupazione: vanno dove c’è bisogno di loro. Certo, servono regole, permessi, sicurezza, ma l’arrivo e l’integrazione di queste persone è indispensabile per un Occidente dove sempre meno gente mantiene sempre più gente. E, poi, non sono “il male”. Gli Stati più prosperi sono quelli che hanno aperto le frontiere: cosa sarebbe l’Europa, oggi, se non avesse avuto, al proprio interno, le migrazioni di portoghesi, spagnoli, greci e italiani?».
Giovani in rivolta nell’Africa del Nord, ma anche alle nostre latitudini. In Spagna gli «indignados» gridano la voglia di vivere in una società nuova, con una politica nuova.
«È un fenomeno in cui si legano due aspetti: da un lato la legittima protesta di ragazzi e ragazze che hanno studiato, si danno da fare e hanno di fronte la prospettiva d’una esistenza indecorosa, senza lavoro in un Paese che ha il 20% di disoccupazione. L’altra faccia della medaglia mostra un rischio terribile: che l’indignazione diventi rifiuto degli strumenti e dei meccanismi partecipativi».
Tutti contro tutto, dice lei?
«Io sostengo che se i partiti e le istituzioni non esercitano le proprie funzioni bisogna curarli, non reclamarne l’eliminazione. Se gli amministratori sono corrotti bisogna sostituirli. Se hanno comportamenti sconvenienti, anche da un punto di vista sessuale, condannarli perché un atto privato, per un politico, ha sempre un’importanza pubblica. Certo, a questo proposito guardo a quanto è successo a Strauss-Kahn in Usa e mi domando: sarebbe accaduta la stessa cosa, con la stessa rapida inflessibilità, in Francia, in Spagna o in Italia?».
Vede in questo movimento una riedizione riveduta e corretta del Sessantotto?
«Il Sessantotto, secondo me, è stato una sorta di bello spettacolo che non ha risolto i problemi per i quali lottava. “Proibito proibire” era solo una frase pericolosamente letteraria. Credo che los indignados potranno esportare, in qualche modo, la loro protesta anche in altri Paesi, ma devono rendersi conto che stanno inquadrando come bersaglio qualcosa di più importante di partiti e istituzioni: la democrazia stessa. Si interroghino: se non funziona la democrazia, che cosa funziona? La dittatura?».
RENATO RIZZO (La Stampa venerdì 27 maggio 2011)

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