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45 anni fa, il ricordo indelebile del mio incidente


45 anni fa, domenica 10 marzo 1974, alle ore 12.30, la mia vita avrebbe potuto avere fine a 17 anni.
Prima domenica a targhe alterne, dopo il blocco delle auto, dovuto all'austerity obbligata dalla crisi petrolifera.
La giornata di primavera era calda e soleggiata; i miei genitori avevano deciso di andare a trovare il padre Virginio Rotondi - gesuita che li aveva sposati nel 1950 e battezzato me nel 1957 - che si trovava a Villa Sorriso in via dei Laghi, sul lago di Albano - 32 km, un'ora circa di pedalata, con una bella salita da Ciampino fin sopra il bordo del cratere, di fronte a Castel Gandolfo -.
Io ciclista dilettante di belle speranze, non potevo non cedere alla tentazione di inforcare la mia bici da corsa Lazzaretti.




Così feci, non ascoltando le sensazioni di pericolo che mia madre, come cane con gli ultrasuoni, con inusitata veemenza, mi gridava prospettandomi, un giorno o l'altro, qualcosa di brutto.
Io le opposi la mia abitudine a macinare chilometri; non avevo altro mezzo che la bicicletta con la quale mi spostavo giornalmente.
Inoltre, le targhe pari del parco macchine limitato di allora, non faceva prevedere un gran traffico; e proverbiale la mia prudenza.
All'andata tutto bene.
Eravamo nell'anno del referendum per il divorzio e Padre Rotondi mi fece la proposta di seguirlo in giro per l'Italia, per la sua campagna contro.
Ripresa la strada di ritorno, nella discesa dal lago a Ciampino, a ruota libera, subito dopo l'incrocio per Marino, sotto la parete di peperino, sopra la quale si trovava la villa di Sopfia Loren, da dietro una curva, improvvise, escono tre macchine che si sfidano in un doppio sorpasso.
Sono attimi, angoscianti ed angosciosi, nei quali il tempo diventò irreale, lungo e brevissimo allo stesso tempo.
Io scendo raso bordo destro della strada, ho appena il tempo di pensare che forse la Mini Minor si sposterà, o forse meglio buttarsi nella cunetta, e la mia bici impatta a 80 km/orari.
Un impatto che, ancora oggi, non dimentico, negli occhi l'auto che mi piomba addosso, nelle orecchie il suono sordo, il cuore in gola.


La sensazione è terrificante, la bicicletta, per un attimo, non si stacca dai piedi, perché i fermapiedi dei pedali non si sganciano immediatamente, mentre salto per aria, rotolo sul cofano, batto sul parabrezza e cado di lato, dentro la cunetta. Resto sulla schiena, poggiato sul dosso della cunetta, non svengo e non perdo i sensi, ma il senso della realtà; tanto tutto è stato così repentino e inaspettato.
Quindi, la prima idea che mi viene è di rialzarmi, ma al pensiero, non riesco a far seguire l'azione: le gambe non rispondono.
Mi avevano spezzato ambedue i femori e, guardandole, erano diventate informi e grandi come due mortadelle.
Ero vivo, ma stavo rischiando di morire dissanguato, come mi avrebbero detto poi: i quattro tronconi dei femori si erano fermati a tanto così dalle arterie femorali, con il rischio di tranciarle e mandarmi all'altro mondo in brevissimo tempo; e, comunque, avevo un'emorragia interna che fu risolta al pronto soccorso, appena 20 minuti prima della fine.
Intanto, intorno a me si era formato un capannello; ma tutto sembrava arrivare di lontano.
Sentivo dire"non toccatelo", era la fidanzata di Olla, il mio investitore; come dimenticare il nome di colui che ebbe stravolta la vita, notti di incubi, per aver stravolto la mia, incontrandomi sulla sua strada.
Le tre automobili del sorpasso si erano fermate, i componenti precipitati fuori dagli abitacoli, mentre di lontano, dall'alto della salita, sopraggiungeva la Fiat 500 con i miei genitori.
Mi disserro, successivamente, di aver capito subito che mi era accaduto qualcosa.
Non sentivo dolore, la forte botta mi aveva anestetizzato; cominciavo a sentir freddo, un freddo irreale, mentre, al risveglio della coscienza, cresceva la paura.
Mia madre era in piedi su di me, ed io, le dissi, "mamma, prega la Madonna perché muoia il meglio possibile".
Lo crediate o no, da quel momento, scese dentro di me una calma improvvisa.
Non era come oggi, niente cellulari, niente 118, e l'ambulanza arrivò dopo un tempo infinito; inoltre, si trattava semplicemente di un pulmino Volkswagen, color cachi, solo con una sirena e nessuna attrezzatura medica.
Mi sollevarono come un fagottino, mi misero sulla barella e via verso il piccolo ospedale di Ciampino; l'infermiere, reggendomi per non farmi ribaltare, gridava di correre e mettere la sirena, all'autista che rispondeva "non c'è bisogno non c'è nessuno per strada". A me il tempo sembrava sempre più lento e lungo.
Finalmente, arrivati mi portarono nella sala di pronto soccorso dove mi accolse una giovanissima dottoressa alla sua prima esperienza di primo soccorso, di cui non seppi mai il nome, e Cesare l'infermiere che mi confessò di aver sudato le classiche sette camice, tanto da essere stato costretto a buttar via la canottiera.
La dottoressa faceva parte di quella squadra di angeli che mi hanno trattenuto qui; con i mezzi dell'epoca, di lastra in lastra, raddrizzare le gambe cercando di evitare che si tranciassero le arterie femorali, quello che non era successo fino ad allora.
Io ormai nel mondo dei sogni sotto morfina, non vidi arrivare neanche mio zio Augusto, il fratello medico di mia madre, che le disse che non c'erano molte speranze viste le mie condizioni.
Mia madre, che con la sua forza di carattere, fece risvenire una signora che, in attesa nella sala di PS, stava rinvenendo per avermi visto passare, dicendole serenamente che ero suo figlio.
Alla fine di questa giornata concitata, seguirono altri giorni sotto morfina, con le gambe in trazione; un chiodo nel ginocchio e due carrucole con pesi per 18 giorni mi tennero tirate le gambe spezzate, in attesa che potessi essere operabile, dopo una dose massiccia di trasfusioni di sangue e decine di trasfusioni.
Supino con le gambe alzate su cavalletti, la posizione, inamovibile vista la situazione, mi fece venire il decubito e soffrire un dolore acuto causato dall'apofisi della terza vertebra lombare che si era lesionata, e sulla quale ero poggiato; ma sopportar mi fu dolce, pensando che oltre ad essere vivo, ero scampato anche alla paraplegia.
Come Dio volle, arrivai al giorno dell'operazione; 6 ore d'intervento complicatissimo, realizzato a regola d'arte dal giovane primario ortopedico, Gian Galeazzo Carreri, che prese una scheggia dalle creste iliache per innescare la produzione del callo osseo e mise in linea i femori con una barra d'acciaio fissata con 9 e 10 e dieci viti per ognuno dei femori.





Il più era fatto, a livello medico, il resto era tutto affidato alla mia pazienza, anche se lo stesso Carreri affermò che tutto era frutto di un miracolo.
Pochi altri giorni di ricovero e poi a casa in carrozzina per 6 mesi; ne erano previsti meno, e le aspettative di rialzarmi crescevano ad ogni visita di controllo, perché sarebbero cresciuti mese per mese, perché, se pure il callo osseo procedeva bene, il fatto che le gambe rotte fossero due, richiedevano la certezza che fosse ben consolidato.
Non mancarono i complimenti dei sanitari per la pazienza, la costanza e obbedienza alle loro prescrizioni, ma fu pur duro condividere ciò che i paraplegici vivono per la vita, tra carrozzina e letto.
Tutto arriva a chi sa aspettare; ma alzarsi, camminare con i bastoni canadesi, momento tanto atteso, fu anche tanto difficile.
Dopo la nuova nascita, ci furono i nuovi primi passi bambini, incerti, traballanti; poi due mesi con i bastoni.
E la bici? Pochi i tentativi per riprendere a cavalcarla, ma meglio andare a piedi, felice di non essere morto per vivere tante meravigliose esperienze, padre di Giovanna Francesco e Giulia, e nonno di Sara Giorgio Samuel Federico Elsa Gaia, tutti meravigliosi, la mia eredità per un mondo migliore.

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