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La diffidenza degli scrittori per la fotografia


Emile Zola fotografo con una Kodak Box Camera
Nel 1898 un giornale letterario parigino, il Mercure de France, la cui testata credo sopravviva ancora, pubblicò un singolare sondaggio. Rivolse a qualche decina di scrittori la stessa semplice domanda: “Siete favorevoli o contrari a illustrare i romanzi con fotografie?”.

L’argomento era di particolare attualità. Benché la fotografia avesse già sessant’anni di vita, solo da un decennio il perfezionamento dei sistemi fotomeccanici permetteva di realizzare da fotografie argentiche matrici che potessero essere stampate assieme al testo tipografico. Una svolta poco ricordata ma fondamentale: è lì che nasce davvero la nostra civiltà delle immagini, è lì che la “riproducibilità trecnica” delle fotografie diventa realmente di massa: quando si poterono finalmente stampare sui giornali fotografie, e non più disegni tratti da fotografie. Ovviamente questo era possibile anche sui libri.

Oggi quasi solo i libri per bambini hanno le figure, così tendiamo a scordare anche che gran parte dei romanzi dell’Ottocento, non solo quelli popolari, erano pieni di immagini: la domanda del Mercure dunque suonava in realtà così alle orecchie degli scrittori: preferite che i vostri romanzi siano illustrati con immagini realizzate manualmente (incisioni o litografie) oppure con immagini di provenienza fotografica? L’inchiesta del Mercure, infatti, prendeva spunto proprio dalla pubblicazione di alcuni precoci esperimenti in questa seconda direzione.

Le risposte furono congruenti con le ideologie dell’epoca. Una parte degli scrittori, alcuni con entusiasmo positivista e verista, risposero sì: evviva l’irruzione della realtà nella narrazione, evviva il matrimonio fra tecnica e arte. Altri, riprendendo gli argomenti sprezzanti del Baudelaire di quarant’anni prima, sostennero viceversa che no, non poteva essere permesso alla meccanica fotografia di varcare le sacre soglie dell’immaginario e dello spirituale.

Per la cronaca il sondaggio fece registrare, su 24 risposte, tredici pareri sfavorevoli, dieci favorevoli e una risposata sibillina. A sorpresa, il naturalista Emile Zola (lui stesso fotografo) si schierò fra gli scettici, pronosticando che l’apparizione della fotografia sulla pagina dei libri sarebbe scivolata rapidamente nella pornografia. Ma la risposta che ho trovato più sorprendente e acuta è quella di Stéphane Mallarmé, grande poeta simbolista: anche lui contrario alle illustrazioni (tutte quante, fotografiche e non) tra le pagine narrative, ammonì: se si cede alla fotografia nei romanzi, allora tanto vale passare direttamente al cinematografo. Che è una risposta fulminante e profetica, se solo pensiamo che la prima proiezione dei fratelli Lumière aveva avuto luogo solo tre anni addietro.

Aveva perfettamente ragione. Non fu con la fotografia, alla fine, che il romanzo strinse un’alleanza di ferro che dura ancora oggi: ma con il suo pargoletto irrequieto e mobile, il cinema. Non poteva che essere così: è il cinema a possedere il dono dello storytelling, perché il suo messaggio si svolge in sequenze, si dipana nel tempo e può utilizzare l’articolazione linguistica del montaggio. Per questo, a dispetto dei Lumière che lo avevano immaginato come un complemento animato dell’album domestico, il cinematografo fu il formidabile rianimatore dell’arte della fiction nel Ventesimo secolo, e per questo si vide assegnare senza alcuna fatica quei titoli di “settima arte” e di “decima musa” che invece a mamma fotografia furono pervicacemente negati. Alla fotografia toccò restare ancora a lungo “una bastarda abbandonata dalla scienza sulla soglia dell’arte”, e varcò quella soglia solo quando l’arte stessa cominciò a dubitare di essere arte: con le avanguardie, con Duchamp.

Ho raccontato quest’episodio non solo per captatio benevolentiae, dal momento che siamo ospiti di un’istituzione dedicata alla storia del cinema. Ma perché ha a che fare con quel che ho ricavato dalla lettura dell’utilissimo, godibilissimo libro di Remo Ceserani, che è in primo luogo un documentato viaggio letterario “tematico”, come era stato il suo precedente volume dedicato all’influenza dei viaggi in ferrovia sulla letteratura.

Certo troverete anche in queste pagine un percorso guidato tra i modi diversi con cui gli scrittori hanno raccontato la fotografia con la parola scritta, hanno rappresentato la fotografia, hanno utilizzato l’idea e la suggestione della fotografia come elemento narrativo, come strumento diegetico, come artificio retorico. Ma con una grande differenza fra i due testi. Il treno fu un argomento straordinario per gli scrittori, un soggetto straordinario di narrazione, però non era una macchina capace di produrre segni, come la fotocamera. La fotografia è un oggetto speciale, fa parte del mondo ma vuole anche rappresentarlo. E’ uno strumento che fa concorrenza alle parole.

E qui cominciano i dolori. Gli scrittori hanno sentito sempre, e sempre mal sopportato, questa rivalità. La fotografia incontra senza problemi la pagina scritta  solo quando lo scrittore tiene la penna per il manico, quando è lui a raccontare la fotografia con le sole parole, a inserirla fra gli oggetti narrativi del suo racconto. Ma la fotografia vuole di più, pretende di essere non solo narrata, immaginata, ma vista. Rarissimi però sono i casi di scrittori che abbiano narrato non solo la fotografia ma anche attraverso le fotografie, portandole direttamente sulla pagina (che fossero scattate da loro, scrittori-fotografi, o raccolte da altri), come l’americano Wright Morris o più di recente il tedesco Winfried G. Sebald. E tranne poche fortunatissime eccezioni, si è trattato sempre di matrimoni asimmetrici, squilibrati, tirannici, sbilanciati sempre a profitto dell’uomo delle parole, quando i colpi di fulmine non si sono subito spenti in strazianti divorzi con prole (basti solo, per stare in Italia, ricordare l’infelicissimo litigio tra Elio Vittorini e Luigi Crocenzi sull’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia).

Io penso che questa mésalliance sia inevitabile. Fotografia e scrittura sono entrambi materiali della comunicazione umana, ma non condividono lo stesso piano semantico. È un luogo comune falso che “una fotografia vale mille parole”: è stato detto che questo può forse essere vero, ma qualcuno deve pur scriverle, pronunciarle o almeno dirle, quelle mille parole. E si accorgerà allora che si tratta solo di sostantivi e aggettivi. Una fotografia può dire “verde”, “alto”, “sedia”, “professore universitario”, può far vedere (lasciamo stare quanto fedelmente, la questione del realismo e dell’autenticità ci porterebbe lontano) come le cose sono, ma non riesce a spiegarci cosa le cose fanno. Le mancano i verbi. Viceversa, quando uno scrittore tenta di “esaurire un luogo parigino” con le sole parole, come provò a fare Georges Perec, il lettore si rende conto che decine di pagine potrebbero essere vantaggiosamente sostituite da un paio di immagini fotografiche. Ma anche questa che potrebbe essere una felice complementarità non si è mai davvero realizzata in un’opera “a due mani e due occhi”.

Tra fotografia e letteratura c’è dunque un rapporto asimmetrico, autoritario e sbilanciato a vantaggio degli scrittori. E io penso che siamo di fronte a un caso di forte ingratitudine. Tra Otto e Novecento la fotografia ha rinnovato lo sguardo degli scrittori almeno tanto quanto ha rinnovato quello dei pittori. Ha fornito loro, Ceserani lo dimostra in modo inequivocabile, fresche smaglianti armi retoriche, una gamma di metafore inedite, nuove fonti di ispirazione, tecniche di osservazione e descrizione: pensiamo a quel che ha significato la scoperta del dettaglio, la novità dell’inquadratura che “taglia” il continuum dello spazio, dell’istantanea che blocca e analizza il movimento sospeso, o la nuova relazione tra figura e sfondo, o di organizzazione prospettica dello spazio proposte dalle ottiche fotografiche, sul piano formale; per non dire dell’iperestensione della memoria, scoperta che fa della Recherche di Proust un libro letteralmente intriso di suggestione fotografica.

L’irruzione formidabile dell’immagine tecnica, la fotografia, ha cambiato la letteratura; la letteratura ha usato la fotografia, ma l’ha tenuta al guinzaglio. Non so se avrebbe potuto essere altrimenti. La fotografia, a differenza del cinema, non ha nessuna voglia di rubare il mestiere agli scrittori, ai quali ha dato senza ricevere poi molto. Sarebbe bello che gli scrittori le fossero più esplicitamente riconoscenti, smettendo di vergognarsi di quell’aiutino che David Hockney ha chiamato (parlando dei pittori che usarono di nascosto la camera oscura), una “sapienza segreta”.

Pubblico qui di seguito il mio intervento alla presentazione del libro di Remo Ceserani Lo sguardo della Medusa, pronunciato alla Bibliomediateca Mario Gromo del Museo del cinema di Torino il 21 dicembre 2011. (Michele Smargiassi su "Fotocrazia" la Repubblica.it)

caro michele grazie per questo nuovo tema di discussione. ho lavorato molto con scrittori italiani e stranieri, credo che il numero di quelli interessanti e riconoscenti verso la fotografia sia leggermente più alto. mi riferisco a scrittori come erri de luca (ti ricordi la prima copertina di “non ora non qui”), a predrag matvejevic, edoardo albinati, paul auster, rocco carbone, emanuele trevi, valerio magrelli, elisabetta rasy, e a filosofi come giorgio agamben e a tantissimi altri, che hanno scritto con estrema competenza sulla fotografia. anche molti poeti, cito valentino zeichen, silvia bre, mark strand, vedono con estremo interesse il mondo della fotografia d’autore. e qui è il punto: più la fotografia raggiunge un linguaggio fortemente autonomo, libero, chiamiamolo per sintetizzare “autoriale”, e più un confronto forte e paritario si sviluppa. un altro punto molto interessante di discussione e lo scadimento del livello di interdisciplinarietà del dibattito culturale in italia: spesso molti scrittori non conoscono affatto la scena fotografica e viceversa (per non parlare dei fotografi che non conoscono la scena fotografica, ma questo è un altro argomento), e tutto ciò vale anche per altri incroci tipo arte contemporanea, cinema, teatro, ecc. strano che tutto ciò succeda quando la tecnologia e la velocità di comunicazione dovrebbero assisterci: ma anche questo è un altro argomento ancora. grazie per lo spazio, ciao Marco Delogu.

Caro Michele,
forse tu lo sai, mi occupo del rapporto fotografia e letteratura da oltre vent’anni, da prima che uscisse con Editori Riuniti (nel 1988) l’antologia GLI SCRITTORI E LA FOTOGRAFIA che ho realizzato su sollecitazione di Leonardo Sciascia. Le questioni che tu poni sono molte e complesse, e non ho modo qui entrarci. Lo farò nei 10 (dieci) volumi che a partire dalla prossima estate realizzerò per POSTCART. Analizzerò lì una serie di problemi che da tempo mi interessano particolarmente. Qui, invece, col tuo permesso, vorrei velocemente esprime il mio disgusto per la faccenda della “foto dell’anno di World Press Photo”. Non c’è giornale che non ne parli. E tutti lo fanno come se si trattasse della Cappella Sistina, mentre in realtà è una foto banale, che non è contro la guerra, ma che alimenta lo spettacolo della guerra. Una foto in perfetta sintonia con l’ideologia commerciale e spettocolaristica dei signori che alimentno questo “premio”. Sono cose alle quali i giornalististi (non tutti, fortunatamente), per pigrizia e superficialità danno grandissimo spazio, come alla neve che secondo loro (dico loro e non voi, perché ho per te e altri pochissimi amici giornalisti una stima che non mi consente di fare di tutta l’erba un fascio) avrebbe fatto alzare i prezzi del 300%, cosa del tutto falsa e dannosa. Qui, a trecento metri dal Colosseo, i prezzi non hanno avulto alcun aumeno. Maurizio, fruttivendolo e sindacalista della categoria, ha mandato una email alle televisoni che da giorni propinano questa notizia. Ma sono sicuro che non servirà a nulla, così come sono sicuro che i giornali hanno bisogno delle banali spettacolarizzazioni della morte e delle catastrofi di WPP.
Ti ringrazio dell’ospitalità e ti saluto con affetto
Diego Mormorio

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