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Per una filosofia della fotografia


Attraverso un viaggio fisico negli ingranaggi dell’universo fotografico, Flusser propone non un saggio filosofico ma un’ipotesi di lavoro nella ricerca della libertà. Due eventi sembrano aver caratterizzato la storia umana: l’invenzione della scrittura lineare nel secondo millennio a.C. e l’elaborazione delle immagini tecniche che attraversa la nostra epoca. Da qui parte l’autore, proponendo ipotesi e concetti per stimolare un dibattito, fare pensiero e spirito filosofico sulla fotografia.

Come una macchina da presa congela un evento in singoli scatti rapidissimi la cui sequenza ne restituisce il movimento, così Flusser si sofferma su ciascun elemento della fotografia (apparecchio, fotografo, gesto fotografico, ecc.) per ricostruirne l’universo.
Primo fotogramma della sequenza è l’immaginazione, la capacità dell’uomo di astrarre significati spazio-temporali dall’universo reale e portarli in superfici significanti, in un universo bidimensionale. Essa è un ponte magico sospeso tra codifica e decodifica di fenomeni e immagini. L’immaginazione “denota” e “connota” il fenomeno, lo congela nell’immagine e contemporaneamente lo arricchisce di interpretazioni, punti di vista: abbatte perciò la linearità del tempo storico, in cui esiste una successione temporale degli eventi e una correlazione definita tra causa ed effetto, e definisce un tempo circolare, il tempo della magia, in cui il “prima” e il “poi” ritornano nel tempo e nello spazio e aggiungono significati.

All’inizio della storia umana le immagini sono mappe che permettono all’uomo di muoversi ed entrare in contatto con il mondo, poi diventano schermi: alterano, mascherano la realtà, finiscono per essere oggetto di venerazione. Ed è proprio in opposizione all’idolatria delle immagini che si sviluppa il pensiero concettuale, il testo, la storia che astrae solo il necessario. Eppure, nel perenne movimento oscillatorio-alternato della storia umana, anche i testi finiscono con il diventare il solo punto di riferimento per comprendere la realtà. In che altro modo interpretare l’infallibilità e l’indiscutibilità dei testi della Bibbia o del Capitale, se non come sintomi di una nuova testolatria? Flusser individua perciò, con la nascita delle immagini tecniche, cioè create dagli apparecchi, la seconda cesura fondamentale della storia umana. Da un punto di vista temporale, le immagini tradizionali precedono i testi della scrittura lineare, sono “preistoriche”, e ontologicamente astrazioni di primo grado, in quanto partono dal mondo concreto: decifrarle significa quindi cogliere direttamente il fenomeno. Le immagini tecniche invece sono “poststoriche”, astrazioni di terzo grado, perchè astraggono dai testi e quindi indirettamente dal mondo reale: decifrarle significa coglierne il concetto sotteso, i simboli. Paradossalmente invece sembra che le immagini tecniche non abbiano bisogno di essere decifrate: confondiamo il loro significato con ciò che raffigurano in superficie, considerandole finestre sul mondo e non rappresentazioni di esso. E così criticare l’immagine non è critica all’atto creativo che l’ha generata ma al mondo che rappresenta.

L’analisi quindi tocca il rapporto tra autore e prodotto. In passato, il pittore s’inseriva in modo magico ma riconoscibile, tela e pennello erano gli utensili con cui rielaborava in simboli la realtà; così pure l’invenzione della stampa diffondeva testi divulgativi per la gente semplice, testi ermetici per élìte intellettuali, sviluppando l’arte delle immagini, la scienza e la politica a buon mercato. Ora tra immagine e fotografo si pone l’apparecchio fotografico, una black box misteriosa che introduce una magia “poststorica”, inaspettata, che prende forma nell’infinita riproduzione delle immagini tradizionali su poster e cartelloni pubblicitari, o nella magia programmabile e ripetibile dei fotoromanzi surrogati di testi divulgativi e a buon mercato. È l’utensile moderno, di valore, che conferisce agli oggetti una forma nuova, e in ciò li “informa”, producendo beni di consumo. Ma se prima l’uomo lavorava circondandosi di utensili, ora sono le macchine a circondarsi di uomini. E così il fotografo ha tra le mani un utensile, spesso sofisticato, con il quale non vuole trasformare il mondo, non può farlo, ma cerca “informazioni”, per dare al mondo una forma diversa. Il fotografo, emblema dell’uomo moderno, usa lo strumento senza conoscerlo. Non è più homo faber ma homo ludens. L’apparato fotografico (e per analogia quello statale, dirigente, burocratico) è un giocattolo talmente complesso che l’uomo non è in grado di comprenderlo: può solo giocarci combinando in varie forme i simboli contenuti nel programma.

Rimane così solo il gesto fotografico: ma anche questo non è un gesto libero. L’apparecchio fotografico può lavorare solo in funzione di categorie spazio-temporali definite: distanza dall’oggetto e rapidità dell’azione che si vuole catturare. Il fotografo può impostare svariate combinazioni spazio-temporali, privilegiando un primo piano piuttosto che un campo totale, ma la scelta è limitata alle combinazioni possibili delle categorie possedute dall’apparecchio: quella del fotografo è una libertà programmata in quanto egli può volere liberamente solo ciò che l’apparecchio è in grado di realizzare. Secondo Flusser, l’inganno continua nella scelta dell’oggetto da fotografare: in realtà si possono fotografare solo “stati di cose” a cui applicare, di volta in volta, criteri estetici, o prospettici o concetti artistici: in sostanza, ogni foto può essere solo l’immagine dei concetti contenuti nel programma dell’apparecchio fotografico. Il mondo è solo uno spunto. Realismo e idealismo si sfumano perchè non è reale né il mondo là fuori né i programmi della macchina: è la fotografia l’unico elemento reale. E cosa accade se il fotografo s’imbatte in un ostacolo quando, impostando la macchina per un campo totale, sfuma un oggetto in primo piano? Deve cambiare programma, cercare per salti la combinazione più giusta: in termine tecnico è costretto a “dubitare”, a regolare nuovamente l’apparecchio, ma nel farlo deve decidere cosa privilegiare, scoprendo che l’apparecchio offre un’infinità di punti di vista al suo occhio che invece è concentrato su un solo oggetto. Agisce quindi in senso anti-ideologico, quando l’ideologia è l’insistenza su un unico punto di vista. Allora decifrare una fotografia vuol dire decodificare il rapporto fotografo/apparecchio, in cui il fotografo intende cifrare nelle immagini la sua visione del mondo, servendosi di un apparecchio, producendo foto che, distribuite, creano esperienza, informazione e rendono lui stesso eterno; l’apparecchio invece intende tradurre in immagini le possibili combinazioni spazio-temporali del suo programma, servendosi di un fotografo. La critica moderna quindi dovrebbe cercare la bellezza di una foto nella capacità del fotografo di sottomettere l’apparecchio all’intenzione umana. Il valore di una foto, duplicabile all’infinito, non è nella foto in sé, come per un quadro d’autore, ma per l’informazione che racchiude, per l’atto creativo che l’ha generata.

E che dire della diffusione fotografica? Essa avviene attraverso il canale divulgativo delle riviste scientifiche e reportage, imperativo dei manifesti di propaganda politica, artistico e pubblicitario. Le foto si caricano così di un contenuto altamente drammatico, in quanto racchiudono la tensione fra tre elementi fondamentali: fotografo, apparecchio e canale comunicativo. Anche qui, secondo l’autore, la critica fotografica dovrebbe evidenziare questa forma di lotta, smascherare i “media” nascosti tra fotografo e apparecchio, per rendere i destinatari consapevoli e non magicamente imprigionati. Il vero punto che andrebbe smascherato è il completo automatismo che l’apparecchio fotografico sta via via acquistando: l’uomo è scalzato, drammaticamente disinserito. Chi oggi non possiede una macchina fotografica? Ma, se è vero che chi sa scrivere sa anche leggere, non è detto che chi sa fare le foto sappia anche decifrarle. Oggi le macchine fotografiche sono apparecchi strutturalmente complessi, ma funzionalmente molto semplici: al contrario degli scacchi, in cui a dispetto di regole semplici, è difficile giocare bene, chi ha in mano una macchina fotografica può fare belle foto senza avere la minima idea della complessità del meccanismo che mette in atto attraverso un semplice scatto. Il fotografo dilettante non è mai al di sopra dello scatto, è catturato dal suo strumento in una sequenza di scatti successivi, è lui stesso prolungamento dell’autoscatto della macchina. Un fotografo vero (alter ego di un uomo libero) riscopre le stesse scene in modi sempre diversi. Cerca di informare, cioè di variare la forma, lo stato di cose di elementi sempre identici; tutto questo in un tempo in cui il vettore semantico si è invertito, le foto spiegano i testi, la realtà è entrata nel simbolo dell’immagine, scacciando indietro la nostra coscienza storica e critica e avvolgendoci nel cerchio magico dell’universo fotografico. In maniera subliminale e ingannevole, gli apparecchi programmano fotografo e società secondo il programma in essi contenuto. Se la filosofia della fotografia riuscisse a tenere alta l’attenzione su questo punto, potrebbe essere significativa per la società postindustriale. La filosofia avrebbe da affrontare il tema della libertà oggi che, in tutti i campi della vita moderna, gli apparecchi finiscono con il programmare ed organizzare la vita degli uomini intorno a essi. I fotografi sono già uomini del futuro, i loro gesti sono programmati dai loro apparecchi, si occupano del “terziario”, si interessano alle informazioni e creano cose (le foto) senza valore. Eppure, convinti che la loro attività sia tutt’altro che assurda, ritengono perciò di essere liberi. È qui che, secondo Flusser, la filosofia potrebbe essere un faro: vigilando la pratica della ricerca della felicità, illuminando i fotografi sperimentali, quelli consapevoli che immagine-apparecchio-programma-informazione sono gli elementi con cui confrontarsi, quelli che tentano di creare foto impreviste, di contrastare i programmi, di “giocare” con l’apparecchio, ma che non sempre comprendono che in questo loro gioco stanno tentando di dare una risposta alla questione della libertà nell’universo moderno dominato dagli apparecchi.
Recensione di Daniela Di Dato - 22/02/2007 da Recensioni Filosofiche

Flusser, Vìlém, Per una filosofia della fotografia.
Trad. it. di Chantal Marazia, Milano, Bruno Mondadori, 2006, II° edizione, pp. 128, € 11,00, ISBN 88- 424-9978-1.
[Ed. originale: Für eine Philosophie der Fotographie, European Photography, Göttingen 1983]

INDICE
Premessa
L’immagine
L’immagine tecnica
L’apparecchio fotografico
Il gesto fotografico
La fotografia
La distribuzione della fotografia
La ricezione della fotografia
L’universo fotografico
La necessità di una filosofia della fotografia
Lessico dei concetti

L'AUTORE
Vilém Flusser (1920-1991), studioso del linguaggio e della cultura, della teoria e della tecnologia della comunicazione e dell’immagine, è considerato un punto di riferimento imprescindibile per la filosofia dei media e la cultura informatica nei paesi di lingua tedesca.

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