Post in evidenza

Keynes e il problema economico degli artisti

Nel 1911, John Maynard Keynes (economista) divenne public buyer della Contemporary Arts Society, creata nel 1910 con l’obiettivo di acquistare opere d’arte contemporanea che potessero essere esibite o presentate alle gallerie pubbliche; un compito che Keynes continuò a svolgere sino alla morte. Il suo nome, associato a quello degli altri buyers, Roger Fry e Clive Bell, avrebbe dovuto costituire una garanzia per i potenziali acquirenti. Fu proprio Roger Fry, all’epoca pittore riconosciuto e critico d’arte apprezzato, a organizzare con l’aiuto di Desmond MacCarthy (un altro “membro” di Bloomsbury Group), la prima mostra su Manet e i post impressionisti, a Londra, tra l’8 novembre 1910 e il 15 gennaio 1911. L’esposizione contava, oltre alle opere di Manet, ventuno quadri di Cézanne, trentasette di Gauguin, venti di Van Gogh, alcuni di Matisse, Picasso, Derain. Virginia Woolf descrisse l’evento come il momento di cambiamento del carattere dell’essere umano. La seconda esposizione, organizzata con Clive Bell e Leonard Woolf, risale al 1912, e s’incentrò sulle opere di Picasso e Matisse. Nel 1913, Fry creerà l’Omega Workshop, impresa per il sostegno agli artisti meno fortunati, nonché esperimento di fusione tra arte e vita quotidiana (“arte industriale”). Anche se l’apprendistato di Keynes all’arte pittorica è relativamente tardivo, e in esso ha svolto un ruolo importante la relazione con Duncan Grant, la sua collezione di opere inizia prima della grande guerra,con l’acquisto di quadri di artisti conosciuti personalmente. Anche il suo “capolavoro”, l’acquisizione della collezione di Degas per conto della National Gallery nel 1918, è in parte merito di Grant, che a Parigi aveva visionato i quadri in questione presso lo studio di Roger Fry. Nel contesto surreale di una Parigi bombardata dal nemico tedesco, Keynes ottiene quattro dipinti di Ingres, due di Delacroix, due di Manet, altrettanti di Gauguin, un’opera di Corot, una di Rousseau, di Forain, di Ricard e alcuni disegni di David, Ingres e Delacroix. Il direttore della National Gallery non concede, pur potendo, il denaro per acquistare opere di Cézanne e di El Greco. Keynes compera inoltre, per la sua collezione, un disegno di Ingres, un piccolo quadro e uno studio di Delacroix, nonché un dipinto di Cézanne. La carriera di collezionista continuerà per tutto il resto della sua vita, anche se si tratterà, in fondo, di “acquisti collettivi”per tutti gli amici di Bloomsbury; e si estenderà dai quadri ai libri.
Nel 1925, Keynes fondò, insieme a Samuel Courtauld (magnate dell’industria tessile, collezionista d’arte e mecenate), la London Artists’ Association. Dodici anni prima, alcuni gruppi di pittori avevano dato vita a un’associazione, il London Group of artists, con l’intento di contribuire a migliorare lo stato dell’arte nel paese. Gli amici di Keynes, Vanessa Bell, Duncan Grant e Roger Fry, inizialmente esclusi, si associarono nel 1920. Keynes scrisse una prefazione al catalogo dell’esibizione dell’ottobre 1921, nella quale introduceva il tema del “problema economico” dei giovani artisti

«Non ci sono molte persone ricche in Inghilterra disposte ad interessarsi al lavoro di giovani pittori, che non sono ancora di chiara fama nel mondo e di moda»


Il problema è racchiuso nella tensione esistente tra i prezzi ai quali il compratore è disposto ad acquistare le opere «solo per l'ornamento della sua casa» e la «somma apprezzabile» alla quale corrisponde un acquisto in forma di investimento nelle capacità del giovane. E tuttavia, aggiunge Keynes, alcuni artisti del gruppo sono disposti, seguendo la regola che assicura che «è meglio vendere le opere al prezzo più conveniente che non vendere affatto», a offrire opere a prezzi popolari. In realtà l’“investimento” è pienamente giustificato: molti degli artisti del gruppo saranno celebrati come i principali esponenti dell’arte britannica del dopoguerra. Inoltre, Keynes illustrò il progetto ben più ambizioso della London Artists’ Association nel giugno del 1930, a cinque anni dal suo lancio, in un articolo per la rivista «Studio». L’associazione (i cui membri originari provenivano tutti dal London Group of Artists) operava sulla base di «co-operative principles», nell’intento, 

«anche se non aveva grande sostegno finanziario, almeno a fare qualcosa per ridurre le ansie dei pittori promettenti e, forse, aiutare a ottenere un mercato migliore a lungo termine per le loro opere» 

Secondo Keynes, l’associazione avrebbe potuto garantire agli artisti la “libertà da considerazioni finanziarie pressanti e continue”, assicurando un reddito minimo e «prendendo su di sé l'intera gestione del lato commerciale dei loro affari». Nell’illustrare il lato finanziario dell’operazione, Keynes stabiliva alcuni principi di base del suo funzionamento: «E 'impossibile, nella mia esperienza, andare avanti cercando continuamente di ottenere sostegno finanziario per qualcosa che è perennemente in perdita e presentarsi come un lavandino sfondato ad amici e sostenitori che vengono con un entusiasmo di partenza» [Keynes, 1930]. L’associazione dovrebbe dunque giungere all’autosufficienza, «essere il più autosufficiente possibile». Keynes rammentava come l’obiettivo primario restasse quello di coprire le eventuali perdite occorse nel garantire un reddito minimo agli artisti; ciò di cui sarebbero appunto stati responsabili per intero i sottoscrittori, senza alcun aggravio per le spese correnti dell’associazione, altrimenti, di fatto, sarebbero stati gli artisti di successo a corrispondere i redditi di quelli meno quotati sul mercato. La scelta dei membri sarebbe stata di competenza esclusiva degli artisti stessi. I risultati, poteva vantarsi Keynes, erano stati superiori alle previsioni. Invocava la collaborazione dei garanti che avrebbero dovuto contribuire a eliminare almeno in parte la «la precarietà di coloro il cui lavoro non hanno ancora raggiunto la fase commerciale per prendere accordi aziendali disinteressati» e la mancanza di rivenditori professionali. «L'Associazione non è una organizzazione di carità: non può permettersi di trascurare del tutto l'aspetto commerciale di immagini»; quindi, un aiuto assolutamente indispensabile, per sostenere gli artisti che ancora non avevano ottenuto l’attenzione dovuta del mercato dell’arte, doveva giungere dagli artisti che meno si sarebbero avvantaggiati, finanziariamente, dalla membership. Keynes riflette sulla politica dei prezzi e sulle dinamiche dello “strano” mercato dell’arte:

«Come tutti i lavori creativi in cui l'occupazione e le realizzazioni sono fini a sé stessi, la pittura non può mai essere adeguatamente perseguito con il preciso scopo di fare soldi. Un artista è una persona straordinariamente fortunata se qualcuno gli pagherà tutti i prodotti che ha prodotto principalmente per piacere a sé stesso e come emanazione naturale della sua personalità. "Quando ricevo una somma in più per una foto," Walter Sickert è solito dire, «è come se qualcuno mi pagasse per i miei avanzi di unghie."»

Al contempo, tuttavia, gli artisti vorrebbero ottenere quanto più possibile dalle proprie creazioni; per tale motivo sono le persone più difficili da trattare

«nel loro modo di intendere e fare business. Non pensano ai soldi, ma lo fanno. E a parte i soldi, la maggior parte di loro hanno un enorme bisogno di successi e riconoscimenti, perché la loro vita sia soddisfacente»

Keynes definisce il pubblico, che sembra preferire «oggetti inutili e orribili» alle opere d’arte, «molto ignorante e esitante per la maggior parte. Eppure, con un immenso rispetto per il prestigio dell'arte e ansioso, in fondo, di godere e di aiutare - se solo potesse fidarsi un po'».

Se al rispetto per il prestigio dell’arte si accompagnassero meno riserve nei confronti dell’acquisto di opere, «sarebbe un grande miglioramento!». Keynes sarebbe tornato sul tema della politica dei prezzi nel 1931, scrivendo una Premessa Economica per il catalogo di una mostra di flower paintings della London Artists’ Association. Qui consigliava ai membri dell’Associazione di adeguare le proprie richieste alla discesa dei prezzi delle materie prime sul mercato, nella speranza di una loro rapida ricrescita. «Nel frattempo, spero che pubblico incontrino gli artisti a metà strada, raddoppiando i loro acquisti. Anzi, mi sono avventurato a chiedere loro di farlo!». Ma il pubblico non verrà incontro alle esigenze dell’Associazione, colpita anch’essa dalla depressione; e nell’ottobre del 1933, le sue attività termineranno. 

L’obiettivo polemico, in Arte e Stato, è l’argomento utilitaristico, la “causa” del successo finanziario: «Lo sfruttamento e la distruzione del dono divino dell'Artista da parte dello Stato, obbligandolo a prostituirsi a fini di lucro è uno dei crimini del capitalismo odierno» [Keynes, 1936]. Tra gli obiettivi dell’artista non compare la motivazione finanziaria. L’artista oscilla tra l’«imprudenza economica», spinta sino al ripudio di un legame tra la sua attività e il denaro, e un’«eccessiva golosità», che gli impedisce di considerare adeguata qualsiasi ricompensa per le proprie opere; egli ha «Ha bisogno di sicurezza economica e di un reddito sufficiente, e quindi di essere lasciato padrone di sé stesso, e contemporaneamente, al servizio del pubblico». L’aiuto che la società dovrà fornire all’artista, una volta acquisita la sicurezza economica, è di ordine immateriale:

«[...] ha bisogno di uno spirito sensibile dei tempi, che non possiamo deliberatamente invocare. Lo possiamo aiutare meglio, forse, attraverso la promozione di un clima di apertura, di liberalità, di candore, di tolleranza, di sperimentazione, di ottimismo, alcune cose buone che si aspetta di trovare. E' la nostra società presente tenuta abbottonata, senza alcuna speranza o fiducia nel futuro, che lo appesantisce»

Descrivendo il progetto della London Artists’ Association, Keynes definisce il lavoro creativo come quell’attività «dove l'occupazione e le realizzazioni sono fini a sé stessi» [Keynes, 1930]. L’artista realizza opere, continuava Keynes, «come emanazione naturale della sua personalità.» 
Le parole del Keynes di Art and the State relative agli artisti contengono molti riferimenti al dono, persino letterali (gifted – che in realtà significa “dotato”, ma – per motivi non casuali – il termine è lo stesso che si utilizza per il dono, “gift”;
divine gift). 
Ciò che più conta, la riflessione proposta è sorprendentemente simile, nei suoi contenuti, a quella degli studiosi che si occupano della persistenza del dono nella società contemporanea; anche se la sua attività mantiene diversi caratteri comuni con quella del ricercatore-scienziato, l’artista non è un lavoratore professionista: per tale motivo non può sfuggire al giudizio del “pubblico”, ed è costretto a partecipare al “mercato dell’arte”. Naturalmente, l’opera d’arte è una merce di un tipo diverso (e per certi versi non lo è nemmeno) da quelle comunemente scambiate sul mercato: secondo Hyde [2005 (1983)], l’opera d’arte partecipa al contempo di due economie, quella del mercato e quella del dono. Il sogno dell’artista (in particolare quello d’avanguardia, il cui “successo” viene paradossalmente misurato sulla base della contrarietà del giudizio del pubblico), non condizionato da preoccupazioni utilitaristiche, è in effetti quello di «fabriquer un produit en indépendance totale à l’égard du client» [Godbout, 2004]. Il vero artista riesce a vendere le sue opere senza vendere se stesso, senza “vendersi”: senza prostituirsi, appunto. Da qui deriva il “problema economico” dell’artista: un artista di successo non potrà provvedere al proprio sostentamento, se non in minima parte, con il ricavato della vendita di opere d’arte. La produzione dell’artista si situa all’opposto, nell’ideale continuum, della moderna produzione d’impresa: per l’estrema importanza, da un lato, riconosciuta al “processo” di produzione; e per il legame, dall’altro, cui l’artista dà vita con il pubblico. 

Per tale motivo, una persona appassionata d’arte viene definita “amatore”; un termine altrimenti quasi dispregiativo, in un contesto mercantile. L’artista nega il divario che dovrebbe separarlo dal pubblico della sua opera e anzi crea una comunità legata dal rispetto condiviso dell’opera d’arte. Tale comunità rappresenta la negazione di uno dei principali fondamenti della modernità: la separazione tra produttori e utenti. 
Lo scopo dell’Arts Council, spiegava Keynes con parole non dissimili, era quello di offrire «stimolo e proposito, che l'artista e il pubblico possano sostenersi e vivere l'un l'altro in quell'unione che è esistita in passato durante le grandi ere della vita civile comunale» [Keynes, 1945]. All’origine della diversità dell’opera d’arte, risiede il suo carattere di dono: ricevuto dall’artista, che crea in stato di grazia, e trasmesso al pubblico amatore. La genesi artistica è in altre parole frutto di un’invocazione. Se il lavoro degli artisti non è “fatto”, ma ricevuto, ciò significa che proviene «da una fonte di cui non hanno il controllo». La ricezione del dono (l’ispirazione, il talento) esigeche esso sia nuovamente trasmesso, attraverso la “consegna” dell’opera d’arte al pubblico. Il “dono” dell’artista contiene il paradosso che anima l’opera di Marcel Mauss: il suo carattere libero e obbligatorio al contempo [Mauss, 2002 (1923-24)]. Dalla necessità interiore di creare un’opera suggeritagli da una forza esterna (il dono come l’esperienza di «être dépassé par ce qui passe par nous» [Godbout, 2004]; ciò che Keynes descrive come «naturale emanazione di sé [dell’artista] personality» [Keynes, 1930]), l’artista ricava la libertà insita nella creazione stessa. Nelle parole di Keynes:

«Tutti, credo, riconoscano che la natura del lavoro dell'artista, in tutti i suoi aspetti è, per sua natura, individuale e libera, indisciplinata, irreggimentata, incontrollata. L'artista cammina dove il soffio dello Spirito soffia in lui, non può dire in che direzione; lui non lo sa» (Keynes, 1945)

Secondo Godbout, il mercato lascia volutamente ai suoi margini l’arte, proprio perché il carattere di dono della creazione e della fruizione artistica è incontrollabile, a differenza dei normali processi di produzione influenzati pesantemente dai desideri dei clienti
Ecco la necessità, per l’artista, di percorrere una diversa via, quella che lo lega alla comunità degli amatori, dalla quale riceve gratitudine, riconoscenza extra-mercantile, per l’opera d’arte offerta. 
Ecco inoltre l’impossibilità di stabilire un rapporto tra il prezzo dell’opera e il lavoro necessario per crearla (con Hyde, si potrebbe affermare che che nulla rende l’opera d’arte intrinsecamente remunerativa): l’artista è sospeso tra l’«economic imprudence» e l’«eccessive greediness». La libertà dell’artista ha un prezzo: dovrà continuamente lottare per ottenere il riconoscimento sociale, deve cioè sperare nell’effettiva formazione di una comunità legata, come detto, dal comune rispetto per l’opera. La comunità si formerà se l’opera d’arte verrà ricevuta e recepita come dono anche dal pubblico: «L’opera d’artesi rivolge […] a una parte di noi che è essa stessa un dono»; e sarà proprio il suo carattere di dono a imporre dei limiti alla sua commercializzazione:

«Più consentiamo all’arte mercificata di qualificare e controllare i nostri doni, meno dotati diventiamo, a livello sia individuale sia sociale. Il vero commercio dei prodotti d’arte è lo scambio di doni, e se segue la sua peculiare direzione ne erediteremo i frutti: i frutti […] di un mondo in cui sentiamo di poter abitare –la consapevolezza, insomma, di essere solidali con qualsiasi cosa riteniamo la fonte dei nostri doni: la comunità, l’etnia, la natura o gli dèi. Ma non godremo di nessuno di questi frutti se trasformiamo le nostre forme d’arte in mere imprese commerciali» [Hyde, 2005]

Keynes riteneva che l’artista dovesse essere sostenuto finanziariamente perché potesse liberarsi dalle sue ansietà economiche, «e poi essere lasciato a se stesso, allo stesso tempo, il servo del pubblico e il suo padrone» [Keynes, 1936]. Anche per Keynes, dunque, l’artista è sottoposto alla tensione di due forze opposte: è costretto a sottoporsi al giudizio del pubblico, pur restando il vero padrone di sé. Per la società che vuole mantenerlo entro i suoi confini, esaltandone lo spirito creativo e favorendone una funzione eminentemente pubblica, si tratterà allora di permetterne, attraverso la predisposizione – per quanto possibile – di uno «spirito sensibile dei tempi», l’opportunità di godere della libertà insita nella sua attività, rimuovendo le barriere economiche. Permetterne, potremmo osare, una funzione di avanguardia, della quale tuttavia s’intende ridurre gli aspetti meno costruttivi e soprattutto i tempi della reazione sociale che le corrisponderà. L’artista non deve comunque avvicinarsi al circuito dello stato e del potere politico (che agirebbe così da “intermediario”, attuando per l’arte la stessa operazione con la quale ha trasformato i legami sociali obbligatori sopravvissuti all’avvento del mercato in altrettanti diritti, gestiti burocraticamente): in altre parole, non deve allontanarsi da una logica di dono per abbracciarne una più orientata ai dispositivi redistributivi, tipici dello stato nazionale, pena la distruzione del pur paradossale mito dell’arte che resiste nella società moderna. Si tratta di un tema ripreso da Keynes nel suo commento alla trasformazione del CEMA in Arts Council, laddove scongiura con forza la “socializzazione” dell’arte: «non intendiamo socializzare questa parte del progetto sociale» [Keynes, 1945]. Dopo aver ricordato che l’artista non può essere “indirizzato”, Keynes afferma:

«Ma egli conduce il resto di noi in pascoli freschi e ci insegna ad amare e di godere di ciò che spesso non conosciamo o rifiutiamo, ampliando la nostra sensibilità e purificando i nostri istinti. Il compito di un organismo ufficiale, non è quello di insegnante, di censore, ma di dare coraggio, fiducia e opportunità. Gli artisti dipendono dal mondo in cui vivono dallo spirito del tempo»

Risolvere il problema economico dell’artista significa riconciliare la sfera del dono, cui il lavoro dell’artista appartiene, e quella del mercato, il contesto nel quale opera. Il compromesso con il mercato che ne deriva è il risultato della trasformazione del successo (la ricchezza economica) ottenuto dall’artista in “ricchezza-dono”, necessaria per sostenerne lo spirito creativo. Gli artisti potranno svolgere un secondo lavoro, ottenere i favori di un mecenate o vendere direttamente le opere sul mercato. Nel caso di un secondo lavoro, questo è compiuto al fine esplicito di «liberare la sua arte dagli esiti economici»; l’artista diviene “mecenate di se stesso”. La sponsorizzazione attua una sorta di divisione del lavoro tra l’artista e il mecenate, che così agendo “nutre” la dotazione del primo. L’artista che decide di condurre in proprio la promozione della sua arte sul mercato deve saper considerare i suoi lavori come merci, e al contempo non trascurare la dimensione propria del dono. Nessuna delle soluzioni descritte è comunque in grado di trasferire l’artista dalla sfera della sopravvivenza a quella della prosperità; secondo Hyde, l’artista è in ogni caso protetto dalla sua “povertà interiore” (una riformulazione della strategia zen esposta da Marshall Sahlins per le economie primitive), in base alla quale i suoi talenti sono proprietà ricevute e temporanee, che devono essere ritrasmesse, mentre ciò che non è dono è di fatto sprovvisto di valore. Keynes ricorda il detto di Walter Sickert, per descrivere l’essenza del lavoro artistico: “Quando ricevo una somma in giù per una foto è come se qualcuno dovesse pagarmi per le mie unghie”. L’artista è cioè sconcertato di fronte al riconoscimento stesso della ricchezza conferita alle sue opere, poiché nell’atto di trasmetterle al pubblico, ritiene di cedere una parte di sé. La povertà “materiale” dell’artista deriva invece dall’assenza, in una società mercantile, di istituzioni che sappiano riconvertire la ricchezza economica in ricchezza-dono; dalla presenza «di una cultura che non è quindi in grado di ripagare il debito contratto con coloro che hanno dedicato la vita alla materializzazione di un dono»


Estratto da "Keynes, l'arte, lo stato: il paradiso ritrovato e poi perduto" (testo completo)

Vedi Puntata "Money Art - L'Arte e lo Stato" Rai 5

Commenti